Le rondini di Moccone. Memorie di un’infanzia in Calabria

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(2 recensioni dei clienti)

 

Siamo nella Calabria degli anni Trenta del Novecento, in pieno ventennio fascista. Orfano dalla nascita e cresciuto dai nonni materni, Gino ci porta in un mondo ormai scomparso, descritto sinteticamente attingendo dalla propria memoria. In un turbinio di vicende familiari e di vicini di casa, di vetturini e di ferrovieri, di compagni di scuola e di maestri, l’autore ci conduce alla scoperta di squarci di vita intima e sociale, tra descrizioni di giochi di strada, sfilate di balilla, preparazione di dolci tradizionali, amori e turbamenti giovanili: attimi di quotidianità recuperati dalla ragnatela dei ricordi e fissati sulla pagina con piglio neorealista. Il racconto è poetico e spiritoso, filtrato dallo sguardo di un ragazzino riservato cresciuto tra la protezione di una nonna affettuosa e il timore del nonno iracondo, tra i profumi della buona cucina calabrese e quelli dei boschi della Sila. Psicoanalitico nel descrivere emozioni, angosce e turbamenti, affettuoso e sognante nel ricordare momenti di dolcezza e di pace interiore, Gino si alza in volo scivolando sopra gli alberi della Sila per poi ritornare in picchiata verso terra quando, spietato e tagliente, castiga con ironia vizi e debolezze, meschinità e ipocrisie nei caratteri e nella società ma anche, impietosamente, in sé stesso.

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Descrizione

Nato nel 1925 a Corigliano Calabro, cresciuto a Cosenza fino al 1943,
momento del passaggio agli studi universitari, e spostatosi
poi definitivamente a Belluno dove ha vissuto dagli anni
Cinquanta fino al 1992, Gino Sinatra ripercorre con
il proprio diario la vita quotidiana negli anni dell’infanzia
e della prima giovinezza, fino al Natale del 1942.

Dopo molti anni dalla sua scomparsa, le figlie hanno sentito il
bisogno di redigere una versione ridotta di un più lungo racconto
autobiografico – una selezione tra i tanti materiali rimasti – per
ricordare e far rivivere il padre che, per anni, a cavallo dei decenni
Settanta e Ottanta, hanno visto ore e ore al tavolino, davanti alla
vecchia macchina per scrivere – un pacchetto verde di Nazionali
accanto – riempire pagine e pagine di leggeri fogli gialli.
Modesto e parco come un asceta – diceva di aver bisogno solo di
una stecca di sigarette e di un chilo di pere – rifiutò sempre agi e
lussi, considerando le risorse della mente e del cuore le uniche ricchezze
a cui aspirare.
(dalla Nota finale)

 

Storie famigliari (p.28)
Del nonno, la notizia più lontana di cui dispongo è che egli fece il
servizio militare in cavalleria, al tempo in cui anche i soldati semplici
di quell’arma portavano al fianco una grossa sciabola, e che tale
arnese il nonno mio ventenne ebbe occasione di provare addosso a
un commilitone, mollandogli un paio di piattonate sulla schiena;
ignoro i particolari dell’incidente, ma so che, nonostante l’encomiabile
dimostrazione di autocontrollo che aveva fornito, evitando di
usare l’arma dalla parte affilata, il focoso giovane fu costretto a trasferirsi
in un altro luogo, troncando forse una promettente carriera.

Altra notizia di fonte attendibile è che sua madre, la mia bisnonna
Filomena, fu negli anni fiorenti qualcosa di molto simile a ciò che si
suole definire un’arpia; infatti, pare che picchiasse di santa ragione,
prima e dopo i pasti, il consorte, bisnonno Gerardino, che non ho
avuto il piacere di conoscere personalmente, ma che zio Marco, il
quale fece in tempo a conoscerlo abbastanza, ricorda come il classico
pezzo di pane.
[…]

Perdita della naturalezza (p.41)
C’è stata per tutti una prima volta in cui, per paura o per calcolo
o per buona creanza, ci si è trattenuti dal fare ciò che si desiderava,
ed è un peccato che quel momento sia così difficile, non dico riviverlo
emozionalmente, ma anche solo ricordarlo; intanto, però, l’aver
coscienza che un fatto del genere si è verificato, significherebbe
già farsi una ragione di tante cose e sarebbe di non poco aiuto per
liberarci di una parte di quei fantasmi e grilli vari che ci coviamo
dentro; perché a quella prima volta, si capisce, ne sono succedute
molte altre e ben altre, ma è stato in quel primo momento, ormai
lontano nel tempo e, purtroppo, dalla memoria, che un impulso, un
sentimento, un risentimento, che volevano uscir fuori, sono dovuti
rimanere dentro, innaturalmente repressi, e il nostro equilibrio
originario, la nostra pienezza di vita animale, sono scomparsi; e abbiamo
dovuto cominciare ad essere uomini, cioè a tentare di contenere
lo sbilanciamento, di riassestarci, di arrancare coi nostri mezzi,
affinandoli con l’esercizio, per riconquistare l’equilibrio perduto, la
semplicità, la naturalezza. Il tentativo ci rende agitati come prigionieri
in gabbia; per questo, a parte ogni meta più eletta cui possiamo
tendere, l’obiettivo più prossimo è quello di imparare ad agitarci il
meno scompostamente possibile; ma compiti del genere sarebbero
meno ardui, e il cammino meno accidentato, se potessimo illuminare
col ricordo quell’istante ignoto, ma reale.
[…]
Edvige era figlia del sottocapo; abitava all’altra estremità del corridoio
su cui si affacciavano gli alloggi di servizio e si giocava assieme
in quel corridoio, con una tranvia gialla, di latta, i vetri dipinti e
dipinte sui vetri le facce dei passeggeri; ma neanche la faccia di Edvige
ricordo; s’è cancellata, come quella di Annina, ed è strano, dato
che eravamo proprio Edvige e io i due peccatori, colti in flagranza
di gioco del dottore che fa la puntura; su la veste, giù le mutandine;
una cosa brutta brutta, non si fa; ma perché? perché no e basta; uno
scandalo dovette essere, e il trattamento severo, visto che il ricordo
punge; ma una cosa dovette essermi subito chiara: che, al confronto,
suonare la trombetta e far partire il treno era nulla. La scala dei
valori si delineava.
[…]

Cosenza (p.56)
[…] per me Cosenza fu subito la città più bella del mondo, anzi, la “città” e basta;
splendida m’apparve la radiosa mattina del 15 giugno di quell’anno, quando vi giunsi
coi nonni la prima volta, e splendida continuai a trovarla fino a quando la lasciai,
con rimpianto. Stipati su una carrozzella e aggrappati a ogni appiglio, facemmo, a lento trotto,
il giro attorno alla chiesa del Carmine e al suo dirimpettaio di allora,
il monumento a Bernardino Telesio; nell’uscire sulla piazza, appena arrivati,
avevamo tutti perso la parola; quando a stento la ritrovammo, essa si rivelò
così misera per esprimere quello che provavamo, che non valeva neanche
la pena di usarla; chi esclamava Che bella chiesa, chi Che bel monumento,
ma nessuno riusciva ad aggiungere altro; l’espressione dei volti, però,
gli sguardi attoniti, le bocche semiaperte, erano certamente,
come sempre sono, di un’eloquenza senza pari per schiettezza ed efficacia.

Consolette Supereterodine (p. 77)
Ma se il cinema fu una nuova abitudine praticabile all’esterno, il
primissimo, autentico segno della nuova opulenza, dentro casa, era
stata la radio; non erano passati due mesi dall’arrivo a Cosenza che
il nonno s’era fatto dono di una CGE RCA Consolette Supereterodine,
parole che da bambini si imparano bene proprio perché sono
incomprensibili e che poi non si dimenticano più per tutta la vita.
Questa radio era un mobiletto elegante, alta circa un metro, che
nella pancia aveva sette grosse valvole e davanti, al centro, una piccola
nicchia, in cui si vedevano, illuminati da una lampadina interna,
un ventaglio mobile e numerato e una freccetta rossa, che stava
ferma; in aggiunta all’apparecchio, e senza sovrapprezzo, il venditore
aveva fornito un portacenere col nome della sua ditta “Fratelli
Caroselli, via Trieste, Cosenza”, un cartoncino con l’elenco di tutte le
stazioni del mondo e una quantità di raccomandazioni per ottenere
le migliori prestazioni dal portentoso aggeggio.
Da quel cartoncino appresi strani nomi di città, che però potei
cercare sull’atlante solo cinque anni dopo, quando, per le mie
esigenze scolastiche, fu acquistato il primo atlante nella storia
della famiglia.
Anche il nonno scorse con interesse l’elenco e, entusiasta all’idea
di poter ricevere Hilversum, Reykjavik, Aberdeen e altri posti che
nessuno sapeva dove fossero, raccolse e attuò diligentemente, vuoi
i consigli avuti dal venditore, vuoi quelli che giungevano da ogni
parte, sicché la nuova divinità domestica fu oggetto di attenzioni
come niente e nessuna prima.
Per motivi di isolamento e di sicurezza, i piedi del mobile poggiarono
non per terra, ma sui fondi di quattro bicchieri, non so se
rotti appositamente; quanto al collegamento a terra, il filo, protetto
da un tubo di gomma per tutta la sua lunghezza, dopo aver percorso
il pavimento del salone lungo due lati, risaliva una parete fino alla
finestra, usciva fuori e, seguendo il muro esterno, finiva in cortile,
affondato, appunto, in terra; il cavo dell’antenna, anch’esso adeguatamente
protetto, terminava in cima a un palo altissimo, distante
una trentina di metri dalla casa, all’estremità del quale era stata assicurata
un’asta di ferro che dominava ogni cosa; il tutto, installato
espressamente, a cura e spese del nonno.
[…]

 

2 recensioni per Le rondini di Moccone. Memorie di un’infanzia in Calabria

  1. Franco

    Con una prosa fluida ed essenziale Gino Sinatra fa riemergere dal passato i caratteri che si muovono nell’angusto mondo familiare e paesano dell’infanzia, osservandoli con uno sguardo distaccato, talvolta bonario ed ironico, talaltra cinico e sarcastico, ed intorno ad essi dà vita alle piccole cose e alle fantasie giocose od inquietanti che si agitano nell’immaginario infantile. Con una sensibilità crepuscolare riesce a dar forma alle emozioni più profonde come, per esempio, la commossa meraviglia davanti ad un fenomeno del tutto ignoto come quello dell’armonia familiare vigente tra i membri della famiglia Goletti, o dell’esperienza della bellezza nella contemplazione di Cosenza, “la città più bella del mondo”.

  2. anna rigano

    Libro stupendo, mi ha ricordato Fellini, Woody Allen, Proust … indimenticabile

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